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House of the Dragon 2, uguale ma diversa da Game of Thrones: l’equilibrio è stato raggiunto. La recensione (senza spoiler)

Mantenendo saldo il suo legame con la serie originaria (a partire dalla splendida sigla), House of the Dragon nella seconda stagione riesce a differenziarsene interpretando la narrazione con un’altra prospettiva

17 Giugno 2024 21:20

Uguale, eppure diverso: con House of the Dragon 2, il prequel di Game of Thrones (nonché primo spin-off di una probabile lunga serie di prodotti derivanti dall’universo di George R.R. Martin) ha fatto quel “clic” necessario a confermarsi qualitativamente come una delle migliori serie tv in circolazione e, al tempo stesso, a trovare l’equilibrio giusto tra i nostalgici delle Cronache del ghiaccio e del fuoco e i curiosi di nuove storie.

La recensione di House of the Dragon 2

Un salto indietro nel tempo

Se già la prima stagione di House of The Dragon aveva cercato di replicare in qualche modo le atmosfere della serie madre, la seconda stagione centra totalmente l’obiettivo. Vedere House of the Dragon 2 è come tornare agli anni pre-pandemia, quando per un’ora a settimana ci buttavamo nelle atmosfere di Weiss e Benioff per scoprire quale personaggio l’avrebbe fatta franca e per quale il destino, invece, sarebbe stato più avverso.

L’operazione voluta dalla Hbo è stata evidentemente quella di seguire la linea della novità dal punto di vista narrativo, ma anche e soprattutto provare a ricreare quello stesso clima che Game of Thrones era riuscito a costruire nel corso delle stagioni.

Ora, però, tutto quel tempo a disposizione non c’è, considerato anche che stiamo parlando di una serie derivata, il cui universo è già noto al pubblico. House of the Dragon, dopo una prima stagione di “reset” necessaria per conquistare la fiducia dei telespettatori (anche questa missione già ampiamente riuscita), può finalmente prendere il decollo.

Un percorso chiaro (e una sigla che ce lo ricorda)

La traiettoria è chiara, ma per guardare al futuro bisogna conoscere il passato: Ryan Condal -affiancato da Martin- tiene le redini di un racconto pronto a dare il meglio di sé episodio dopo episodio e che, come la serie da cui deriva, saprà ricompensare l’attesa dei telespettatori.

Un’attesa ripagata fin dai primi minuti di ogni episodio, grazie alla splendida nuova sigla della seconda stagione, in sostituzione a quella un po’ meno impattante dell’esordio. Anche in questo caso, è un ritorno alle origini: certo, la grande mappa in continuo cambiamento di Westeros non c’è più. Al suo posto, un arazzo in divenire che tesse personaggi e azioni della Casa Taragryen, coprendo laddove possibile le macchie di sangue che inevitabilmente segneranno la saga.

Ma il senso è lo stesso: sia House of the Dragon che Game of Thrones fanno dell’epicità del racconto la ragione della propria forza. Non si finisce a guardare queste serie solo per come sono fatte, ma anche per ciò che raccontano e che racconteranno.

La forza del singolo, la vera novità

Ma con tutti questi richiami al passato, House of the Dragon 2 riesce a differenziarsi da Game of Thrones? Assolutamente sì, e lo fa con un dettaglio non da poco, ovvero il focus relativo ai vari personaggi. Se la serie madre (così come i libri da cui era tratta) aveva dei protagonisti che in fin dei conti per gran parte delle stagioni altro non erano che rappresentanti di fazioni più estese, in House of the Dragon la prospettiva si inverte.

Ora, abbiamo due fazioni oppose (Team Neri e Team Verdi), raccontate tramite la singolarità dei vari personaggi che ne fanno parte: non contano più, insomma, il gruppo e il suo leader, ma come pensa ognuno dei personaggi in scena e come agirà.

Ed è in questo che House of the Dragon riesce a differenziarsi da Game of Thrones, interpretando una guerra che deve ancora effettivamente scoppiare all’interno di una stessa famiglia come una storia stratificata dai punti di vista e dalle ragioni. Il pubblico non può non schierarsi e, mentre sceglie da che parte stare, ringrazia di essere tornato a Westeros.